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Periodico della Parrocchia San Filippo Neri

 

ARCHIVIO ANNO PASTORALE 2017-2018

 

 

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EVVIVA LA RIVOLUZIONE      di GP. M. – 02 giugno 2018

 

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In una trasmissione televisiva, prima delle elezioni politiche, per introdurre la riflessione dei convenuti e presentare al candidato di turno le domande pertinenti, una persona dello spettacolo  ha “declamato” il codice di quelli che, secondo lei, dovrebbero essere i comportamenti rivoluzionari del cittadino del nostro Paese.  Udite, udite!

 

“Rivoluzionarie sono la sobrietà, l’educazione, la cultura, l’arte; rivoluzionario è il diritto alla scuola, al lavoro, alla salute; rivoluzionario è l’accesso alla conoscenza; rivoluzionario è il rifiuto alla volgarità, anche quella dilagante dell’ostentazione del lusso; rivoluzionario  è il rifiuto della violenza, anche quella verbale; rivoluzionario è dire a chi cerca di corromperti : no, grazie. Rivoluzionario è l’apprendimento contro la superficialità; rivoluzionario è insegnare ai propri figli il rispetto di tutte le diversità, l’accoglienza, la compassione, la fratellanza, la capacità e la volontà di provare a condividere il dolore degli altri; rivoluzionario è combattere il pregiudizio; rivoluzionaria è la ricerca della bellezza; rivoluzionario è spegnere la televisione e dedicarsi ai propri cari, coltivare delle passioni, continuare a giocare; rivoluzionari sono il sorriso, la gentilezza, l’umiltà, il saper ridere di noi stessi e delle nostre miserie; rivoluzionaria è la semplicità …”

 

Non ci resta che sottoscrivere subito a caratteri maiuscoli. Perché tanta meraviglia e consenso per  queste parole accolte anche da noi come espressione della più originale delle novità?

 

Forse è il caso di riflettere che si tratta di verità che il magistero ecclesiale e quello degli uomini intellettualmente onesti cercano da sempre di farci comprendere.

 

 

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100 ANNI DI SOLITUDINE di GP. M. – 19 maggio 2018

 

 

 

Ci sono ancora gli echi della morte di Ermanno Olmi, regista cinematografico con la macchina da presa sempre puntata a fotografare la realtà della vita quotidiana: quella schiva e disarmata dell’esistenza dei contadini, quella del lavoro duro, quella dei prati e dei boschi montani, quella nascosta dell’animo umano e del suo costante orientarsi verso Dio. Animo del credente reso credibile, nel caso di Olmi, dalla coerenza che il Vangelo comanda.

Tre anni fa, in occasione del centenario dell’inizio della Grande Guerra, Ermanno Olmi ha inventato e diretto il suo ultimo film –“Torneranno i prati”- che mi ha invitato ad alcune riflessioni.

 

Cento anni. Sono quelli dell’attesa solitaria delle migliaia di giovani uccisi dagli eventi della Grande Guerra: eventi che si sono consumati soprattutto nella drammaticità delle trincee e giovani che aspettano una risposta al perché della loro morte.

“Torneranno i prati”, film di Ermanno Olmi, sollecita una verifica collettiva e individuale al di là della retorica celebrativa del Centenario (1915-2015).

Ai giovani di allora bisogna dire, con la voce silente della coscienza e con quella gridata della verità storica, perché furono chiamati a combattere; ai giovani di oggi si deve spiegare, attraverso l’impegno della ricerca e della comunicazione, perché e  per chi i loro coetanei di un tempo sono morti. “Di fronte alla morte e ai bambini, infatti, non si può barare all’infinito”.

In assenza, ormai, di testimoni bisogna avere certezza che la storia non esiste se qualcuno non la racconta; occorre scavare con l’aiuto della narrazione e dei documenti per dare forza alla memoria e alla speranza che per i nostri soldati, in qualche modo traditi, la morte sia stata almeno la fine di una separazione, perché “… c’è nell’uomo una parte di eternità, qualcosa che la morte mette al mondo, fa nascere altrove” (Francois Mitterand).

 

“Torneranno i prati” aiuta questa ricerca. E’ infatti una denuncia-provocazione la quale ci dice che “la guerra è una brutta bestia che gira per il mondo e non si ferma mai” e che “… la guerra è la migliore occasione per fare fetenzie. Dà il permesso”.

 

Il primo messaggio conclude il film di Olmi; il secondo Erri De Luca lo fa pronunciare a don Gaetano, saggio portinaio di un caseggiato di Napoli.

 

 

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DON TONINO BELLO, VESCOVO      di G. Paolo Manganozzi – 12 maggio 2018

 

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Alcuni pensieri dopo la preghiera del Papa  sulla tomba del Vescovo amico dei poveri crocifissi

 

Nel momento in cui provo a mettere insieme qualche idea su don Tonino Bello (… giustizia vorrebbe che se ne scrivesse molto di più e molto meglio) guardo alcuni dei suoi libri che possiedo e non posso non ritornare a ricordare e a riflettere.

 

Don Tonino aveva un bel volto. Il volto sereno dell’amico che incontri per strada, privo dei segni tormentati dell’ascesi, illuminato da sorrisi appena accennarti e reso sbarazzino dagli occhiali di traverso sui capelli (… guardare con gli occhi e andare  più in profondità con le lenti del pensiero?).

 

Don Tonino aveva la poesia nel cuore. Poesia che emergeva spontanea per colorare la traduzione in parole dei contenuti alti della sua vita e della sua pastorale.

E non è certo casuale l’incontro reale, spirituale, verbale con padre Davide Maria Turoldo, al quale don Tonino scriveva “… Grazie, cantore incomparabile di ‘deposizioni’ che sanno già di speranza e di luce, e dietro le quali le vesti di ‘Lei’ si gonfiano come vele verso estuari di libertà”.

 

Don Tonino era invaso dall’immagine dei poveri. I poveri da lui non solo difesi, ma accolti, inseriti nella propria esistenza, fino al punto di aprire loro la propria casa vescovile, affrontare per loro le critiche di quanti, legati a formalismi ed orpelli, mormoravano di rischi e di deviazioni, ignorando l’ansia di chi voleva solo chinarsi a tendere la mano. L’ansia di “amare  la carne con il cuore di Dio: la carne della storia , anzi della cronaca bianca e nera dei poveri e dei crocifissi”.

 

Don Tonino era l’immagine della pace. Pace cercata a tutti i costi, non accarezzata da esortazioni retoriche, pace come sentimento dell’anima, concepita come impegno morale individuale e collettivo, come giustizia e “forma esigente di carità” (Paolo VI).

Quale presidente della Pax Christi, don Tonino Bello dette alla sua azione un ruolo anche politico, scagliandosi contro i costruttori di guerre, guidati dai fini del profitto economico e di potere propri della fabbricazione delle armi. Espressivo del suo impegno per la pace fu il  viaggio-pellegrinaggio nella Bosnia devastata dalla guerra, quando già il suo male aveva superato i limiti della sopportazione del dolore.

 

Don Tonino aveva scoperto la bellezza dell’incontro. Incontro tra   amore per Dio e amore per gli uomini, soprattutto se esclusi e oppressi. Così che il suo concludere l’Eucarestia dicendo “La Messa non è finita, portate la pace” era la sintesi dell’incontro tra terra e cielo; era l’invito a non sentirsi appagati dalla partecipazione a un rito concluso, ma a dare continuità tra la gente  a quella partecipazione per essere davvero parte di “una Chiesa che è per il mondo e non per se stessa”. La “Chiesa in uscita” di Papa Francesco.

 

 

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VENTICINQUE D’APRILE DER QUARANTACINQUE di GP. M. – 28 aprile 2018

 

 

 

Er senso vero de “libberazzione

lo vo’ sapeer monello de la scuola

pecapi’ si davero ‘sta parola

annisconne dolore e distruzzione.

 

La  maestra risuscita Stazzema

e li Fratelli Cervi e l’Ardeatine

er carvario de cristi co’ le spine

che solo a ricordalli er core trema.

 

Parla de pora ggente e de li forti

spariti da la vista anche a se stessi:

pe’ campa’ je toccava d’esse morti …

 

… però pe’ via de la libberazzione

sortirono dar buio de l’oppressi

e fu la Pasqua de risurrezzione.

 

 

In memoria di quanti a lungo dovettero vivere  nascosti –ospitati clandestinamente anche da parrocchie, congregazioni religiose, istituzioni ecclesiastiche- per sfuggire alla morte o alla deportazione.

 

 

 

 

 

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RICERCARE LA GIOIA      di GP. M. – 10 marzo 2018

 

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Esattamente un anno fa abbiamo chiesto ai giovani di sorprenderci, di essere audaci.

 

Ho ripensato a questo nostro invito ascoltando don Gino Rigoldi – lo storico cappellano/maestro del carcere minorile Beccaria di  Milano – parlare del coraggio di risalire la china per dare senso all’esistere, anche dopo il tonfo della peggiore trasgressione.

 

E ho ripensato, per contrapposizione, a un antico film – protagonista Brad Pitt – che parla di giovani demotivati ai quali sono mancati validi modelli di comportamento e che, secondo il regista, hanno mille ragioni per pensare alla vita in modo negativo.

 

Così, quando non riversano energie in atti criminosi, scaricano la loro noia nell’inventare battaglie violente o aggressioni a persone indifese per movimentare una vita tutta da buttare.

 

Ancora una contrapposizione.

Il prossimo ottobre il 15° Sinodo dei Vescovi italiani affronterà il tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”: un titolo ripido quanto una scalata alpina in un’epoca in cui lo sbandamento sembra annebbiare gli occhi e la mente, mentre occorrerebbero energie nuove,  dotate di generosità e capacità di analizzare il futuro e di educare alla gioia anche attraverso l’ascolto della Parola.

 

L’idea di ”comunità educante” ci dice che la responsabilità nei confronti della nuove generazioni  non può essere interamente delegata ai genitori: è il tema di fondo che ha impegnato  l’annuale convegno della diocesi di Roma, intitolato “Non lasciamoli soli! Accompagnare i genitori nell’educazione dei figli adolescenti”.

 

Tema che non potrà essere ignorato dal Sinodo di ottobre, per il quale le comunità parrocchiali, i gruppi organizzati e le singole persone sarebbe opportuno partecipassero anche in via preparatoria facendo pervenire i loro suggerimenti.

 

 

 

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ANNA FRANK di GP. M. – 04 febbraio 2018

 

 

A 13 anni, ci dice la storia di Anna Frank, si possono scrivere o dire parole delle quali i tempo non potrà scalfire il significato profondo e la drammaticità, colorandola peraltro della fede nell’intima bontà dell’uomo, della speranza di ordine e di pace, della certezza del “ritorno della primavera”.

 

Come ogni anno, il 27 gennaio ci chiama a ”fare memoria” – cioè approfondimento, meditazione impegno e non semplice racconto o ricordo fugace - della persecuzione degli ebrei  da parte della Germania hitleriana. Persecuzione favorita anche dall’Italia attraverso l’applicazione delle leggi razziali: una normativa che per il Presidente Mattarella “rivela al massimo grado il carattere disumano del regime fascista e manifesta il distacco definitivo della monarchia dai valori del Risorgimento e dello Statuto liberale. …Il cammino dell’umanità è purtroppo costellato di stragi … ma la shoah - per la sua micidiale combinazione di delirio razzista, volontà di sterminio,  pianificazione burocratica, efficienza criminale – resta unica nella storia d’Europa.”

 

E di questo delirio è simbolo e testimonianza il “diario” che Anna Frank, ebrea poco più che bambina, ha scritto durante gli oltre due anni di segregazione in un appartamento segreto di Amsterdam, inventandosi un’amica virtuale per dare vita ai suoi colloqui: Kitty.

A Kitty Anna parla di tante cose: di ribellione nei confronti degli adulti incapaci di cogliere la sua evoluzione fisica e mentale, del suo amore adolescente, di vita, di speranza, di piccoli desideri realizzati pur nel buio della sua “prigione”, dei segni della primavera visibili sui tetti di Amsterdam.

 

La storia di Anna mi ha fatto ripensare a una canzone amara di Francesco Guccini, cantata dall’Equipe 84 (vecchi ricordi). Si, perché anche il suo piccolo corpo è finito nel vento di Bergen Belsen in cerca di una pace che il mondo non impara a volere.

 

 

Auschwitz

 

Sono morto che ero bambino,

sono morto con altri cento,

passato per un camino

ed ora sono nel vento.

 

Ad Auschwitz c’era la neve

e il fumo saliva lento,

nei campi tante persone

che ora sono nel vento.

 

 

Nel vento tante persone,

ma un solo grande silenzio;

è strano, non ho imparato

a sorridere qui nel vento.

 

No, io non credo

che l’uomo potrà imparare

a vivere senza ammazzare

e che il vento mai si poserà

che il vento mai si poserà.

 

 

 

 

 

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BUON CAMMINO      di GP. M. – 06 gennaio 2018

 

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Buon cammino lungo le strade del nuovo anno. Con la certezza di non essere soli.

Dall’inizio del tempo di Avvento alla celebrazione del Battesimo del Signore abbiamo ricevuto molti stimoli per guardare allo specchio l’immagine dei nostri comportamenti. E per una ulteriore meditazione già si profila il richiamo della Pasqua.

Non siamo soli; l’interrogativo allora è: sappiamo riconoscere la presenza del Signore?

Nel brano che segue, una risposta possibile.

 

***

Alcuni poveracci sono andati dall’eremita per averne lume e consiglio. Egli passa la sua giornata tra la coltivazione dell’orto e la lettura e non gli piace perdere tempo in chiacchiere; però talvolta cede alla compassione per l’ignoranza della povera gente.

“Ah, vi meravigliate ch’Egli si sia mostrato come uno straccione?” dice l’eremita. “E che vi aspettavate, che si presentasse come un banchiere, col cilindro e i guanti gialli?”.

“Credi “ gli chiede uno dei cafoni “ch’Egli si trovi ancora dalle nostre parti?”.

“Egli è in ogni uomo che soffre. Lui stesso ce l’ha spiegato; Egli è in ogni povero”.

“Io sono povero, eppure in me Lui non c’è”.

“Tu sei povero, ma non vorresti essere ricco?”.

“Ah certo, magari”.

“Vedi? Sei un falso povero”.

“Se vive fra noi, perché non lo vediamo?” gli domanda un altro.

“Perché noi non sappiamo riconoscerlo”.

“Ah spiegami dove potrei trovarlo?” gli chiede un vecchio stagnino. “Tu sai come io sia mal ridotto, e avrei tanto bisogno di una grazia”.

“Se hai bisogno urgente di denaro, devi chiederlo al diavolo, non a Gesù”, gli spiega l’eremita. “Sarebbe inutile, sarebbe fiato sprecato, credi a me, implorarlo da Lui. Egli è povero, veramente povero, e non solo per modo di dire. Egli è povero, ancor più povero di me e di te”.

Quei derelitti rimangono  costernati. “Di dei, forse non ce n’è uno solo, e ogni razza, si racconta, ha il suo; ma, porca miseria, proprio a noi disgraziati doveva toccare un Dio simile?”

***

Ignazio Silone, Il seme sotto la neve - Mondadori

 

 

 

 

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L’ELMO E LORENZO di GP. M. – 09 Dicembre  2017

 

 

Due letture, due riflessioni.

 

La prima

“Perché mi uccidete, profittando della vostra superiorità? Io non sono armato. – Come! Non abitate sull’altra riva del fiume? Amico mio, se abitaste da questa parte, sarei un assassino, e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo; ma poiché abitate sull’altra riva, sono un valoroso e quel che faccio è giusto”.

Bisogna avere il coraggio di attraversare il fiume. Per superare le distanze e guardare l’altro come un uomo, un “uguale” a noi, bisogna imitare il guerriero antico, capace di togliersi l’elmo di fronte al nemico armato di spada e chiedergli così di fare altrettanto, di compiere un gesto di pace accogliente.

 

Ho ripensato a questi pensieri di Franco Cassano -1- (un invito a scoprire il patrimonio d’anima di quanti fanno parte dei nostri incontri) quando ho ascoltato le parole pronunciate dal Papa a Dacca: fotografia sonora  della “compassione” per il dramma del popolo Rohingya, finalmente guardato  con gli occhi di chi scopriva in esso la presenza di Dio, chiarendo il significato vero di “prossimo”.

 

La seconda

Lo scorso mercoledì lo scrittore israeliano David Grossman ha ricevuto il premio internazionale “Primo Levi”, assegnato a coloro che diffondono messaggi di pace, contro  l’intolleranza e il razzismo.

Nell’occasione Grossman ha voluto ricordare “Se questo è un uomo”, libro nel quale Primo Levi, nel raccontare l’inferno della propria permanenza ad Auschwitz, ci parla del proprio rapporto con Lorenzo, l’operaio italiano che gli “portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno, per sei mesi …” e “ non chiese né accettò alcun compenso. Perché era un uomo buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso”.

Grossman vede Lorenzo come un uomo capace di sguardi che vanno fino al profondo del cuore umano per condividerne le gioie e soprattutto il dolore. Condivisione  che ha consentito a Primo Levi di sopravvivere.

 

-1- F. Cassano, “Approssimazione”-Il Mulino, 1989

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UN NUOVO TUTORE      di GP. M. – 11 novembre 2017

 

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L’appello umanitario dell’ONU (Unicef) 2017 ci ha detto che nel mondo sono 48 milioni i bambini e i ragazzi che attendono di essere sottratti ai conflitti e alle emergenze alimentari e sanitarie.

 

In Italia sono già quasi 20.000 i minorenni stranieri non accompagnati, giunti via mare nella bolgia dei gommoni degli immigrati (... e dei corpi senza vita): mamme e papà li hanno affidati al mare nel tentativo di sottrarli alla morte per guerre e persecuzioni, per fame e malattie  e dare loro una probabilità di crescita e di fortuna prima di vederli tornare in patria.

 

A  loro è rivolta la legge n. 47/2017 che tra le forme di protezione e di aiuto ha inserito quella dei tutori volontari da reclutare con accordi tra i garanti regionali per l’infanzia e l’adolescenza e i tribunali per i minorenni. Questi ultimi sono incaricati di tenere appositi elenchi nei quali iscrivere privati cittadini selezionati e formati compiutamente dai garanti attraverso convenzioni con associazioni, università o altre formazioni sociali.

 

Non si tratta di adozione né di affido; i nuovi tutori (qualcuno li chiama “genitori sociali”) sono chiamati a stabilire un rapporto “di cuore” con questi minori - per la maggior parte 16-17enni che rimangono nei centri di accoglienza -, interessarsi della loro educazione, aiutarli nel  percorso di crescita, condividendone le piccole e grandi esigenze di vita (l’apprendimento della lingua, la difesa dalle insidie della criminalità, l’ottenimento del permesso di soggiorno …)

 

L’iniziativa  - davvero di grande interesse -  sta compiendo i suoi primi passi; televisioni e giornali ne stanno fornendo informazioni anche dettagliate, particolarmente rivolte alle persone  sensibili, capaci di accogliere l’idea di dare speranza a tanti bambini e ragazzi  per i quali il futuro sarebbe altrimenti solo un tunnel senza luce.

 

 

 

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DUE CENTENARI  per pensare ai valori della pace di GP. M. – 28 Ottobre  2017

 

 

Cento anni fa.

Molte sono state in questi giorni le rievocazioni della ritirata italiana di Caporetto, evento drammatico della Grande Guerra 1915/1918 (22 Nazioni coinvolte) con le migliaia di morti che l’analisi storica attribuisce soprattutto agli errori di strategia degli Alti Comandi.

 

Centodue anni sono invece quelli dell’attesa solitaria dei giovani uccisi (651 mila) dall’insieme degli eventi di quell’”inutile massacro” (Benedetto XV): eventi che si sono consumati soprattutto nelle trincee e giovani che aspettano una risposta al perché della loro morte.

 

Ai giovani di allora bisogna dire, con la voce silenziosa della coscienza e con quella gridata della verità storica, perché furono chiamati a combattere; ai giovani di oggi si deve spiegare, attraverso l’impegno della ricerca e della comunicazione, perché e per chi i loro coetanei di un tempo sono morti.

“Di fronte alla morte e ai bambini, infatti, non si può barare all’infinito” (Ermanno Olmi).

 

In assenza, ormai, di testimoni – non ci sono più i nonni a raccontare – bisogna avere certezza che la storia non esiste se qualcuno non la racconta; occorre scavare con l’aiuto della narrazione e dei documenti per dare forza alla memoria e alla speranza che per i nostri soldati, in qualche modo traditi, la morte non sia stata almeno la fine di una separazione, perché “… c’è nell’uomo una parte di eternità, qualcosa che la morte mette al mondo, fa nascere altrove” (Francoise Mitterand).

 

“Torneranno i prati”, film di Ermanno Olmi, sollecita una riflessione collettiva e individuale sul valore della pace, aldilà di ogni retorica celebrativa dei centenari.

 

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